Fra segni e memoria ri-velata: Intervista a Giulio Telarico
Figura di rilievo nel panorama artistico e del design contemporaneo italiano, Giulio Telarico ha costruito nel tempo un linguaggio essenziale e poetico, fatto di segni che dialogano con la memoria, il mito e l’interiorità. Per Ellebi Lab l’artista ha realizzato il prototipo di una lampada e delle stampe d’autore dedicate alla figura di Alarico, il leggendario re dei Visigoti sepolto, secondo la tradizione, alla confluenza del Crati e del Busento. Un progetto che intreccia luce e memoria, storia e mistero, e che si inserisce nella serie Stupor Mundi, dedicata alla riscoperta dei simboli identitari di Cosenza.
Nella tua ricerca i segni diventano spesso custodi di memorie e simboli. Cosa ti affascina del legame tra segno, storia, mito e immaginazione, e in che modo questo rapporto crea il tuo linguaggio visivo?
Il mio rapporto con il segno nasce dall’osservazione della natura. Da sempre mi affascina il dualismo tra luce e ombra, tra visibile e invisibile. Con il tempo il segno ha assunto molteplici valenze, fino a diventare parte essenziale del mio lavoro. Anche oggi, nel tornare al disegno, esso rimane centrale: è minimale, ma profondamente evocativo. Mi piace pensare al mio lavoro come a un tentativo di mettere ordine nel mondo che mi circonda — nel mio studio, tra materiali, superfici, rilievi, luci. Creo composizioni di forme, sagome e lettere grafiche che giocano, su superfici ora piane, ora concave e convesse, con la luce naturale e artificiale. Cerco un equilibrio, e quando lo trovo, l’opera mi dice che è compiuta. Spesso le mie figure entrano in “conversazione” (NdR: questo è il titolo di un recente lavoro che il maestro ci mostra nel suo studio): sono sagome, teste, presenze che si incontrano attraverso il pensiero. È un modo per restituire un ordine poetico alle immagini che mi abitano. Così è nata anche la serie di D’après — d’après Picasso, d’après Del Pezzo, d’après Savinio —, un modo per tornare a conversare con gli artisti che mi hanno segnato, giocando ancora con i loro messaggi.
Il titolo scelto per i tuoi lavori per Ellebi Lab, “Alarico e il Tesoro ri-velato”, richiama l’idea di svelare e, allo stesso tempo, velare nuovamente il significato — una dialettica che caratterizza sia le vicende di questo frammento di storia sia il gesto artistico stesso. Cosa ti affascina della figura di Alarico e come vivi, nella tua pratica, la sottile dualità fra ciò che si mostra e ciò che rimane nell’ombra?
Alarico è una presenza che a Cosenza abita la memoria collettiva. Qualche tempo fa Luigi Paolo Finizio organizzò una mostra invitando gli artisti a confrontarsi con questa figura, e fu allora che iniziai a ragionare sul tema. Immaginai di trovarmi nei panni di un anonimo scriba, un cronista della corte del Re, intento a registrare frammenti di memoria legati alla sua sepoltura. Da lì nacquero le prime tavole, come pagine di diario in cui compaiono segni e simboli, tracce di un racconto che si affida al ricordo sfuggente e all’immaginazione. L’idea era quella di “rimettere in moto” la figura di Alarico: è proprio l’assenza del tesoro, il suo essere irraggiungibile, a renderlo vivo nel tempo. Il mistero alimenta la ricerca, la memoria e il mito.
Il tuo segno si muove fra presenza e assenza, come in queste “tabulae pictae”, in cui leggiamo i segni lasciati dal tempo e incisi da uno scriba immaginario. Vengono offerti indizi che ci permettono di tessere una possibile storia, ma avvertiamo che manca la chiave di lettura adottata da chi ha scritto: lo sguardo resta sospeso, mentre prova a ricostruire la narrazione senza mai davvero svelarla del tutto.
Proprio così: io lascio delle tracce. Una persona più intelligente di me diceva che un segreto svelato è un segreto svilito. E io credo sia vero. Non offro verità, ma segni. Sta a chi guarda leggere, scegliere di vedere, attivando frammenti della propria memoria personale e collettiva, per svelare, velare e ri-svelare ancora. Il mistero continua a generare senso.
La lampada dedicata ad Alarico — in linea con gli obiettivi di Ellebi Lab — trasforma un racconto leggendario in un oggetto quotidiano. Come sei arrivato a tradurre la figura del cavaliere e la luce del “tesoro perduto” in un segno così essenziale e contemporaneo?
L’idea è nata quasi per caso, dal mio continuo interesse per il dialogo tra luce e ombra. Avevo realizzato una sagoma di Alarico ritagliata dal fondo e, posizionandola davanti a una finestra, ho notato come la luce naturale attraversasse il segno, restituendo un effetto sorprendente. Da lì ho iniziato a sperimentare, utilizzando anche luci a LED, e pian piano è nata la lampada. Mi piace costruire, lavorare con i materiali, forse perché da bambino trascorrevo molto tempo nella bottega di un falegname sotto casa: lì ho imparato che il contatto con la materia è un modo per pensare. Nella vita, come nell’arte, è importante alimentare la fiamma — aggiungere ogni giorno un piccolo pezzo di legno al fuoco, continuare a fare, a cercare. C’è sempre un punto di partenza, ma non si sa mai dove si arriverà, si cambia sempre direzione.
In questi cambi di direzione il tuo percorso si è incrociato con quello di Ellebi Lab, realtà che si muove in un contesto volto a creare sinergia tra arte, design e memoria locale. Come hai vissuto questa collaborazione?
Con Marilena e Claudia ho sempre avuto un rapporto di grande fiducia. L’idea di Ellebi Lab mi è piaciuta subito: mi ha spinto a mettermi nuovamente in gioco, a realizzare cose che forse, in questo momento della vita, non avrei fatto. Trovo molto significativo il legame che questo progetto mantiene con l’università e con il territorio. È un contributo importante per la città, un modo per tenere acceso quel fuoco di cui parlavamo: la curiosità, la passione. Ogni iniziativa che riesce ad attivare nuove persone e nuove energie contribuisce a costruire bellezza. E, in fondo, credo davvero che la bellezza — quella che nasce dall’arte, dal lavoro manuale — possa ancora salvare il mondo.

Studio di Giulio Telarico
*Foto in copertina di Attilio Onofrio
